Shitstorm: una catastrofe per le pubbliche relazioni in rete
I social media marketer sono diventati bravi a leggere i segnali di malcontento nei social network: infatti, anche il più piccolo soffio di vento, può trasformarsi in una tempesta in poche ore. In questi casi è importante tenere d’occhio i post e i commenti degli utenti. Se prende il via uno shitstorm, di solito si ha solo poco tempo per calmare le acque prima che le proteste diventino troppe. Negli ultimi anni i social media hanno dimostrato come queste tempeste possano avviarsi e concludersi molto rapidamente.
Eppure, ancora oggi, le aziende vengono sorprese da queste ondate di protesta su Internet. I media hanno coniato il termine “shitstorm” (letteralmente “tempesta di escrementi”) per questo fenomeno che si verifica online. Questa espressione non solo suona disgustosa, ma in molti casi può anche generare un notevole danno all’immagine. Se un’azienda subisce la furia di una di queste tempeste, spesso deve pagarne le conseguenze per anni.
Gli shitstorm si possono prevenire solo grazie ad una gestione veloce ed appropriata della crisi. Vi spieghiamo cos’è uno shitstorm nel contesto delle comunicazioni online, vi mostriamo come si svolge di solito una crisi di questo tipo con degli esempi famosi e vi presentiamo alcune linee guida generali per gestire la comunicazione in queste situazioni.
Eppure, ancora oggi, le aziende vengono sorprese da queste ondate di protesta su Internet. I media hanno coniato il termine “shitstorm” (letteralmente “tempesta di escrementi”) per questo fenomeno che si verifica online. Questa espressione non solo suona disgustosa, ma in molti casi può anche generare un notevole danno all’immagine. Se un’azienda subisce la furia di una di queste tempeste, spesso deve pagarne le conseguenze per anni.
Gli shitstorm si possono prevenire solo grazie ad una gestione veloce ed appropriata della crisi. Vi spieghiamo cos’è uno shitstorm nel contesto delle comunicazioni online, vi mostriamo come si svolge di solito una crisi di questo tipo con degli esempi famosi e vi presentiamo alcune linee guida generali per gestire la comunicazione in queste situazioni.
Che cos’è uno shitstorm?
Con shitstorm si indica, anche in Italia, il verificarsi di critiche feroci nei confronti di una persona, un gruppo o un’azienda sui profili social, blog o altre piattaforme online che offrono la possibilità di inserire un commento. Che si tratti di uno shitstorm vero e proprio o solo di un aumento significativo di commenti negativi, l’entità del fenomeno la si stabilisce dai suoi caratteri in ascesa e dalla scelta di parole fortemente emotive e, in parte, anche aggressive o offensive.
Il termine “shitstorm” (letteralmente shit, cioè merda, e storm, tempesta) deriva dall’inglese, ma viene anche usato in italiano per descrivere una situazione in cui qualcuno subisce una tempesta di insulti su Internet. Nell’Oxford Dictionary si trova una definizione di shitstorm in questi termini “A situation marked by violent controversy” e lo si contrassegna come linguaggio volgare. In Italia il termine è diventato parte del linguaggio comune, anche grazie al suo uso su blog e giornali.
Il fatto che quando si verificano episodi di shitstorm gli utenti non esitino a lasciare commenti aggressivi, volgari o di disprezzo, viene ricondotto alla disinibizione della comunicazione online. Spesso in rete si ritiene di poter esprimere un parere senza incorrere in alcun rischio: la ragione alla base è la presunta anonimità sul web.
Se lo shitstorm si indirizza a persone celebri o privati cittadini, il fenomeno si può unire a quelli del cyber mobbing, a diverse forme di diffamazione, a molestie o a coercizione di persona. Se si esprime verbalmente odio con lo scopo di sminuire o umiliare, esercitando una sorta di “lapidazione digitale”, i singoli commenti di uno shitstorm possono essere considerati come hate speech e assumere rilevanza penale. Tuttavia, in Italia è ancora difficile prendere provvedimenti concreti contro gli hate crime che avvengono su Internet. A livello teorico molti di questi episodi si potrebbero sanzionare come incitazioni all’odio, diffamazioni e calunnie, ma non sempre si riesce a portare in tribunale e punire chi commette questi reati.
In Italia il fenomeno viene spesso associato anche al “furto” di gruppi di Facebook. Un utente si fa aggiungere a un gruppo, elimina gli amministratori correnti e ne prende il controllo, aggiungendo poi i suoi complici. A questo punto lui e i suoi complici pubblicano sul gruppo post ingiuriosi o volgari, e spesso persino delle vere e proprie discriminazioni o proclami razzisti. Tra le categorie più colpite ci sono quei gruppi legati in qualche modo al meridione. Di seguito faremo riferimento agli shitstorm nel primo senso del termine che abbiamo indicato: cioè come critiche feroci nei confronti di aziende, organizzazioni o persone sui social media.
Il termine “shitstorm” (letteralmente shit, cioè merda, e storm, tempesta) deriva dall’inglese, ma viene anche usato in italiano per descrivere una situazione in cui qualcuno subisce una tempesta di insulti su Internet. Nell’Oxford Dictionary si trova una definizione di shitstorm in questi termini “A situation marked by violent controversy” e lo si contrassegna come linguaggio volgare. In Italia il termine è diventato parte del linguaggio comune, anche grazie al suo uso su blog e giornali.
Il fatto che quando si verificano episodi di shitstorm gli utenti non esitino a lasciare commenti aggressivi, volgari o di disprezzo, viene ricondotto alla disinibizione della comunicazione online. Spesso in rete si ritiene di poter esprimere un parere senza incorrere in alcun rischio: la ragione alla base è la presunta anonimità sul web.
Se lo shitstorm si indirizza a persone celebri o privati cittadini, il fenomeno si può unire a quelli del cyber mobbing, a diverse forme di diffamazione, a molestie o a coercizione di persona. Se si esprime verbalmente odio con lo scopo di sminuire o umiliare, esercitando una sorta di “lapidazione digitale”, i singoli commenti di uno shitstorm possono essere considerati come hate speech e assumere rilevanza penale. Tuttavia, in Italia è ancora difficile prendere provvedimenti concreti contro gli hate crime che avvengono su Internet. A livello teorico molti di questi episodi si potrebbero sanzionare come incitazioni all’odio, diffamazioni e calunnie, ma non sempre si riesce a portare in tribunale e punire chi commette questi reati.
In Italia il fenomeno viene spesso associato anche al “furto” di gruppi di Facebook. Un utente si fa aggiungere a un gruppo, elimina gli amministratori correnti e ne prende il controllo, aggiungendo poi i suoi complici. A questo punto lui e i suoi complici pubblicano sul gruppo post ingiuriosi o volgari, e spesso persino delle vere e proprie discriminazioni o proclami razzisti. Tra le categorie più colpite ci sono quei gruppi legati in qualche modo al meridione. Di seguito faremo riferimento agli shitstorm nel primo senso del termine che abbiamo indicato: cioè come critiche feroci nei confronti di aziende, organizzazioni o persone sui social media.
Svolgimento di uno shitstorm
Ogni shitstorm ha una causa scatenante. Nel contesto aziendale si tratta principalmente di attività discutibili, errori nella comunicazione, disfunzioni evidenti in un servizio o aspettative deluse. Spesso gli shitstorm sono espressione di insoddisfazione da parte dei clienti o una reazione ad una trasgressione a un sistema di valori. Lo shitstorm inizia di solito con commenti occasionali. Gli utenti usano canali di comunicazione che consento il dialogo per muovere apertamente delle critiche e per dimostrare quanto potere abbia il consumatore. Il profilo aziendale sui social network diventa così molto velocemente una gogna digitale. Ma in uno shitstorm i commenti critici sfociano da qualche parte solo se le opinioni negative espresse trovano un eco nella community e, in poco tempo, animano una reazione simile da parte di un grande numero di utenti. Questi, non raramente, si allontano dal tema originale dello shitstorm e sovrappongono agli insulti gratuiti altre critiche che sono invece oggettive. Un aspetto che chiarisce il motivo della connotazione grossolana di questo fenomeno di Internet. Un ruolo decisivo per l’esplosione di uno shitstorm lo assume la copertura dell’evento da parte dei media. Senza l’eco dei media, un aumento di commenti negativi nei social media rappresenterebbe solo un disturbo per l’azienda. La crisi diventa quindi shitstorm quando un incidente ottiene l’attenzione dei mass media. Infatti la pressione sui destinatari di tali commenti negativi aumenta, in quanto gli interessati devono in qualche modo prendere una posizione di fronte a questa reazione a catena. In uno shitstorm si possono individuare chiaramente delle fasi. L’azienda BIG (Business Intelligence Group), che si occupa di social media monitorning, ha suggerito a questo proposito una divisione in tre fasi, che contraddistinguono l’inizio, il punto di svolta e la fine di uno shitstorm.
- Prefase: nella prefase i contributi ricevuti dagli utenti sono ad un livello normale; il numero e il tono dei post non mostra nessuna anomalia.
- Fase acuta: la fase acuta indica il vero e proprio shitstorm in quanto si riceve un numero elevato di commenti negativi in maniera insolita. In questa fase il numero dei post raggiunge il suo picco. Spesso questo coincide con il momento nel quale i mass media si inseriscono e si preoccupano di dare ulteriore attenzione al fenomeno. Se non seguono ulteriori incidenti (ad esempio errori di comunicazione), che gettano altra acqua sul fuoco dello shitstorm, dopo il picco dei commenti c’è un rallentamento, con il quale la fase acuta volge al termine.
- Post-fase: la post-fase indica la risonanza di uno shitstorm. Anche se il numero di commenti critici sul canale si è normalizzato, restano presenti in rete i temi su cui si è sviluppata la crisi: Internet non dimentica.
Commenti sugli shitstorm
Gli esperti di pubbliche relazioni svizzeri Barbara Schwede e Daniel Grad hanno sviluppato una scala di sei livelli per definire gli shitstorm, che dovrebbe servire come un “bollettino meteorologico” per le crisi sui social media. Dal flebile territorio dei commenti negativi sporadici, a una fresca brezza con critiche costanti fino ad un uragano con un pubblico infiammato: la scala sugli shitstorm offre alle aziende una possibilità per giudicare l’intensità del fenomeno.
L’impatto di uno shitstorm sulla reputazione dell’azienda si può valutare sulla base del numero di commenti negativi. Inoltre, la persistenza (cioè l’intensità e la durata) dei commenti e la rilevanza della piattaforma, sulla quale lo shitstorm si verifica, indicano se si tratta di una piccola tempesta senza troppi danni o di una crisi vera e propria.
L’impatto di uno shitstorm sulla reputazione dell’azienda si può valutare sulla base del numero di commenti negativi. Inoltre, la persistenza (cioè l’intensità e la durata) dei commenti e la rilevanza della piattaforma, sulla quale lo shitstorm si verifica, indicano se si tratta di una piccola tempesta senza troppi danni o di una crisi vera e propria.
- Numero dei post: la dimensione di uno shitstorm si stabilisce dal numero dei commenti negativi in relazione al loro valore normale.
- Persistenza: con persistenza nel contesto delle attività online si intende per quanto tempo i commenti vengono inseriti nei social network o nei media online, come blog e siti web. Questo dipende dalla configurazione tecnica della rispettiva piattaforma e dalla disponibilità delle possibilità di controllo.
- Rilevanza: se i commenti negativi di un grande numero di utenti vengono presi per veri e quindi potrebbero potenzialmente danneggiare l’azienda in maniera duratura, dipende in maniera determinante dal raggio di azione e dalla visibilità della piattaforma, dove è comparso il post.
Esempi di casi di shitstorm famosi negli anni passati
Come si sviluppa uno shitstorm e quali contro misure possano prendere le aziende o i privati, per contrastare l’indignazione pubblica, lo si può spiegare meglio con degli esempi.
DELL Hell: perché si dovrebbero prendere sul serio le critiche dei clienti
Il primo grande shitstorm della storia della rete lo scatenò il blogger e docente di giornalismo statunitense Jeff Jarvis nel 2005. Frustrato dai prodotti e dal servizio clienti del produttore informatico DELL, iniziò a scrivere sul suo blog una serie di post, nei quali esprimeva pubblicamente la sua frustrazione. All’inizio, il complesso non diede alcuna attenzione alle critiche con il titolo “Dell lies. Dell sucks”, ma Jarvis catturò l’attenzione dei suoi lettori.
Sempre più utenti solidarizzarono con il blogger, che in rete disponeva di un’influenza notevole, e inserirono nei commenti la loro esperienza con il produttore. DELL dovette confrontarsi in poco tempo con un’ondata di commenti negativi, fino a quel momento dalla portata sconosciuta. Le vendite diminuirono rapidamente e numerosi media riportarono l’incidente, che divenne noto nella rete come DELL Hell (l’inferno DELL).
Alla fine DELL investì, per sua stessa ammissione, 150 milioni di dollari in specialisti, che esaminarono sugli stessi canali social media le critiche e affrontarono in modo diretto i clienti adirati. Anche per questo il gruppo riuscì a calmare le critiche. Oggi il DELL Hell è uno degli esempi più significativi per il fenomeno dello shitstorm e l’efficacia di una crisi di management professionale.
Sempre più utenti solidarizzarono con il blogger, che in rete disponeva di un’influenza notevole, e inserirono nei commenti la loro esperienza con il produttore. DELL dovette confrontarsi in poco tempo con un’ondata di commenti negativi, fino a quel momento dalla portata sconosciuta. Le vendite diminuirono rapidamente e numerosi media riportarono l’incidente, che divenne noto nella rete come DELL Hell (l’inferno DELL).
Alla fine DELL investì, per sua stessa ammissione, 150 milioni di dollari in specialisti, che esaminarono sugli stessi canali social media le critiche e affrontarono in modo diretto i clienti adirati. Anche per questo il gruppo riuscì a calmare le critiche. Oggi il DELL Hell è uno degli esempi più significativi per il fenomeno dello shitstorm e l’efficacia di una crisi di management professionale.
Nestlé: il potere dei video virali
Con la sua barretta di cioccolato KitKat, la più grande azienda alimentare al mondo Nestlé provocò uno shitstorm che, sebbene non sia il primo, è il più conosciuto fino ad ora. Ad iniziarlo fu l’organizzazione mondiale Greenpeace agli inizi del 2010 lanciando un video scioccante su YouTube e rovinando così irrimediabilmente l’appetito dei clienti di Nestlé. Si vedeva un uomo, che scartando una barretta di Kitkat, invece del cioccolato croccante si ritrova tra le mani una barra fatta dal dito di un orango.
Con il video Greenpeace associa direttamente l’olio di palma, sul quale si basava la produzione del cioccolato della Nestlé, all’estinzione di questo animale nella giungla indonesiana. Il messaggio: chi mangia un KitKat, è altrettanto colpevole della distruzione dell’habitat portata avanti dai controversi produttori di olio di palma. Il sangue della scimmia è quindi anche sulle mani dei consumatori. A Nestlé questa rappresentazione del prodotto non è piaciuta per niente.
Pur trovandosi già dentro ad uno shitstorm, il consorzio alimentare ottenne in poco tempo l’eliminazione del video da YouTube e cancellò i commenti negativi sul proprio profilo Facebook: la peggiore strategia che si possa adottare quando ci si trova in una crisi delle comunicazioni online. Infatti il tentativo di insabbiare la vicenda aumentò ulteriormente il discredito pubblico, al punto che il video di Greenpeace si poteva trovare in pochissimo tempo su moltissimi siti web. Infine l’azienda fu costretta a piegarsi di fronte alla pressione della community su Internet e cambiò i suoi fornitori di olio di palma.
Con il video Greenpeace associa direttamente l’olio di palma, sul quale si basava la produzione del cioccolato della Nestlé, all’estinzione di questo animale nella giungla indonesiana. Il messaggio: chi mangia un KitKat, è altrettanto colpevole della distruzione dell’habitat portata avanti dai controversi produttori di olio di palma. Il sangue della scimmia è quindi anche sulle mani dei consumatori. A Nestlé questa rappresentazione del prodotto non è piaciuta per niente.
Pur trovandosi già dentro ad uno shitstorm, il consorzio alimentare ottenne in poco tempo l’eliminazione del video da YouTube e cancellò i commenti negativi sul proprio profilo Facebook: la peggiore strategia che si possa adottare quando ci si trova in una crisi delle comunicazioni online. Infatti il tentativo di insabbiare la vicenda aumentò ulteriormente il discredito pubblico, al punto che il video di Greenpeace si poteva trovare in pochissimo tempo su moltissimi siti web. Infine l’azienda fu costretta a piegarsi di fronte alla pressione della community su Internet e cambiò i suoi fornitori di olio di palma.
Il caso Barilla: come rimediare ad uno shitstorm di dimensioni internazionali
Nel settembre 2013 Guido Barilla, presidente della famosa ditta che produce pasta e sughi pronti, disse ai microfoni di Radio 24 che non avrebbe mai fatto spot pubblicitari con famiglie omosessuali perché, a lui e alla sua azienda, piaceva l’idea di famiglia tradizionale. Naturalmente la dichiarazione provocò l’indignazione di numerose community attive per i diritti degli omosessuali in tutto il mondo. Si arrivò addirittura al punto di aprire pagine Facebook e account Twitter dal nome “Boycott Barilla” o simili.
Pochi giorni dopo l’infelice uscita, Guido Barilla si è scusato pubblicamente ed ha ammesso di avere ancora molto da imparare sul concetto di famiglia. Da quel momento l’azienda si è impegnata attivamente a rimediare al suo errore, incontrando diverse community LGBT e lanciando diverse iniziative nella sua azienda che dovrebbero servire a promuovere l’accettazione delle diversità e la parità tra i sessi, come la Diversity & Inclusion Board.
I numerosi provvedimenti a favore di omosessuali e transgender non sono passati inosservati: nel 2015 l’azienda ha ricevuto un punteggio perfetto nel Corporate Index della Human Right Campaing, una classifica importante che premia le aziende più gay-friendly al mondo. Il caso Barilla dimostra come talvolta da un brutto incidente di percorso si possa anche uscirne rafforzati.
Pochi giorni dopo l’infelice uscita, Guido Barilla si è scusato pubblicamente ed ha ammesso di avere ancora molto da imparare sul concetto di famiglia. Da quel momento l’azienda si è impegnata attivamente a rimediare al suo errore, incontrando diverse community LGBT e lanciando diverse iniziative nella sua azienda che dovrebbero servire a promuovere l’accettazione delle diversità e la parità tra i sessi, come la Diversity & Inclusion Board.
I numerosi provvedimenti a favore di omosessuali e transgender non sono passati inosservati: nel 2015 l’azienda ha ricevuto un punteggio perfetto nel Corporate Index della Human Right Campaing, una classifica importante che premia le aziende più gay-friendly al mondo. Il caso Barilla dimostra come talvolta da un brutto incidente di percorso si possa anche uscirne rafforzati.
Campionato europeo di calcio insanguinato: uccidere cani per il calcio?
Molto grave è anche la ragione dello shitstorm, con il quale ha dovuto fare i conti la UEFA prima dell’inizio del campionato europeo di calcio del 2012. Come tutti i paesi ospitanti, anche l’Ucraina voleva presentarsi sotto la miglior luce possibile all’evento internazionale. Per questa ragione i numerosissimi cani randagi dovevano sparire dalle città che ospitavano le partite prima dell’inizio del torneo. Quindi si decise di avvelenarli sistematicamente e poi di bruciarli.
Gli attivisti per i diritti degli animali di tutto il mondo si infuriarono e sensibilizzarono gli utenti sulla sorte dei cani randagi ucraini. Si chiese a gran voce un boicottaggio del campionato europeo. La PETA, un’organizzazione no-profit a sostegno degli animali, e pagine di Facebook come “Stop Killing Dogs” ottennero grande attenzione da parte dei media. Quando lo shitstorm raggiunse il suo apice, gli stessi sponsor dell’evento si distanziarono dalla crudele pratica per sfuggire ad un danneggiamento dell’immagine aziendale. Infine, il governo ucraino stabilì di introdurre misure contro l’uccisione di massa dei cani randagi. Oggi il paese usa la castrazione per contrastare il loro aumento incontrollato.
Gli attivisti per i diritti degli animali di tutto il mondo si infuriarono e sensibilizzarono gli utenti sulla sorte dei cani randagi ucraini. Si chiese a gran voce un boicottaggio del campionato europeo. La PETA, un’organizzazione no-profit a sostegno degli animali, e pagine di Facebook come “Stop Killing Dogs” ottennero grande attenzione da parte dei media. Quando lo shitstorm raggiunse il suo apice, gli stessi sponsor dell’evento si distanziarono dalla crudele pratica per sfuggire ad un danneggiamento dell’immagine aziendale. Infine, il governo ucraino stabilì di introdurre misure contro l’uccisione di massa dei cani randagi. Oggi il paese usa la castrazione per contrastare il loro aumento incontrollato.
ING Direct: Nowitzki e il würstel
Il fatto che la direzione di uno shitstorm possa cambiare nel corso di svolgimento, lo mostra il caso contro la ING Direct (conosciuta in Italia principalmente per il conto di deposito Conto Arancio) nel 2012. In un video pubblicitario lanciato sul mercato tedesco la banca mostra Dirk Nowitzki, giocatore di basket professionista nella NBA, nell’atto di mangiare un würstel. I vegani tedeschi crearono un polverone e investirono la pagina Facebook dell’azienda con commenti critici, che denunciavano apertamente il consumo di carne.
La ING Direct puntò i piedi e lascò che la rabbia della folla imperversasse. Un portavoce dell’azienda disse che la INC Direct non voleva censurare ed era aperta ad una discussione libera. In questo modo la banca colpì direttamente il bersaglio: non solo i mass media, ma anche tanti amanti della carne, attaccarono il linguaggio scurrile utilizzato dallo shitstorm. Ad essere criticato è stato soprattutto il tono aggressivo, con il quale i critici si sono rivolti all’azienda, che di fatto non aveva fatto niente di male. Presto il fronte vegetariano si trovò davanti la controforza di chi mangiava carne, il vento era cambiato.
La ING Direct seppe usare l’incidente a suo favore e ringraziò pubblicamente i suoi clienti, definendoli il nucleo del suo forte marchio.
La ING Direct puntò i piedi e lascò che la rabbia della folla imperversasse. Un portavoce dell’azienda disse che la INC Direct non voleva censurare ed era aperta ad una discussione libera. In questo modo la banca colpì direttamente il bersaglio: non solo i mass media, ma anche tanti amanti della carne, attaccarono il linguaggio scurrile utilizzato dallo shitstorm. Ad essere criticato è stato soprattutto il tono aggressivo, con il quale i critici si sono rivolti all’azienda, che di fatto non aveva fatto niente di male. Presto il fronte vegetariano si trovò davanti la controforza di chi mangiava carne, il vento era cambiato.
La ING Direct seppe usare l’incidente a suo favore e ringraziò pubblicamente i suoi clienti, definendoli il nucleo del suo forte marchio.
La gaffe di Dolce & Gabbana: il boicottaggio social e la lite con Elton John
Nel 2015 Dolce, famoso stilista del celebre marchio Dolce & Gabbana insieme al suo compagno, dichiarò in un’intervista di non volere “bambini sintetici”, riferendosi a quelli avuti tramite utero in affitto. Aggiunge inoltre di non volere figli perché, in quanto omosessuale, la natura non lo consente. Naturalmente, come nel caso Barilla, l’ira delle comunità gay di tutto il mondo si è abbattuta sul celebre marchio di moda. Ma oltre ad account e pagine Facebook che invitavano a boicottare Dolce & Gabbana, nella discussione si inserirono anche altri personaggi noti come Elton John, Victoria Beckham e Sharon Stone.
Dolce ha cercato di smorzare la polemica dicendo di aver ricevuto un’educazione siciliana ed essere cresciuto con un modello di famiglia tradizionale. Inoltre, sostenne, di aver parlato unicamente per sé e di non voler certo imporre le sue idee ad altre persone. Il messaggio servì ben poco e parecchio tempo dovette passare prima che le acque si calmassero.
Dolce ha cercato di smorzare la polemica dicendo di aver ricevuto un’educazione siciliana ed essere cresciuto con un modello di famiglia tradizionale. Inoltre, sostenne, di aver parlato unicamente per sé e di non voler certo imporre le sue idee ad altre persone. Il messaggio servì ben poco e parecchio tempo dovette passare prima che le acque si calmassero.
Shitstorm contro i politici: Poletti contro gli italiani all’estero
Sicuramente tra i personaggi più bersagliati dagli shitstorm in Italia ci sono i politici. Le figuracce sono numerosissime e, soprattutto, provenienti da esponenti di tutti i partiti politici. Una delle ultime è quella del ministro del lavoro Giuliano Poletti che, a fine 2016, ha dichiarato che dei centomila giovani in fuga ne conosce molti che “è meglio non avere tra i piedi”.
Naturalmente le ire della rete non si sono fatte attendere e la sua pagina personale su Facebook è stata invasa dai commenti indignati di italiani all’estero e non. Ad unirsi al coro ci sono infatti anche, i numerosissimi giovani italiani residenti in Italia che non hanno trovato un lavoro e riversano la loro rabbia sul ministro. A poco sono servite le scuse di Poletti, che dice di essersi espresso male. La rete non sembra voler perdonare ed aumentano le richieste delle sue dimissioni da parte di altri esponenti politici.
Naturalmente le ire della rete non si sono fatte attendere e la sua pagina personale su Facebook è stata invasa dai commenti indignati di italiani all’estero e non. Ad unirsi al coro ci sono infatti anche, i numerosissimi giovani italiani residenti in Italia che non hanno trovato un lavoro e riversano la loro rabbia sul ministro. A poco sono servite le scuse di Poletti, che dice di essersi espresso male. La rete non sembra voler perdonare ed aumentano le richieste delle sue dimissioni da parte di altri esponenti politici.
Crisi di comunicazione: districarsi in maniera professionale in uno shitstorm
Come gli esempi mostrano, gli shitstorm si sviluppano su Internet sulla base di diverse ragioni. Le dinamiche dei social media rappresentano una sfida per chi le affronta. I commenti negativi non sempre si lasciano ricondurre ad un comportamento sbagliato dell’azienda interessata o di un privato. Per questo non si può sviluppare un unico piano generico su come affrontare uno shitstorm. Le strategie di pubbliche relazioni consigliano però agli interessati di rispettare certe linee guida di comunicazione. Queste hanno il primario obiettivo di calmare le acque e di contrastare un escalation della situazione.
- Mantenere la calma e analizzare la situazione: Se colpite da uno shitstorm, le aziende tendono a reagire eccessivamente. Prima che siano avviate delle contromisure, vale la pena analizzare la situazione: si tratta di un aumento di commenti negativi che davvero fa presagire uno shitstorm? Le critiche sono in qualche modo giustificate? E quali possibilità avete per placare le critiche.
- Evitare la censura: Si devono evitare reazioni definitive come l’eliminazione di commenti indesiderati o la chiusura di un intero canale di comunicazione. Su un canale come Internet, la crisi si sposterebbe in questo caso solo su di un’altra piattaforma. Un esempio per questo è il caso dello shitstorm che ha colpito Nestlé. Anche la presa di provvedimenti legali dovrebbe essere ben ponderata. Le aziende danneggiano la loro immagine ancora di più quando cercano di sopprimere massivamente le opinioni, procedendo legalmente contro i critici. Se gli attacchi sono ingiustificati, gli autori si squalificano da soli per il loro comportamento aggressivo od offensivo. Inoltre c’è anche la possibilità che la community adotti la posizione opposta e, come nel caso della ING Direct, protegga l’azienda dalla critiche.
- Prendere sul serio le critiche e ammettere gli errori: se si verifica un disservizio, anche alla luce del sole, le aziende tendono a nascondere tutto. Ma se fioccano già i primi commenti negativi, di solito la bufera non si placa con negazioni o contestazioni. Invece serve prendere sul serio le critiche e tenerle presenti per il futuro. Le aziende, che negano o tacciono su evidenti disservizi, aumentano solo la durata dello shitstorm. Anche il girare le carte in tavola o il rifiuto di responsabilità possono attirare ulteriori shitstorm. Per sfuggire alle critiche il più velocemente possibile, si consiglia di ammettere gli errori e di discutere le possibili conseguenze, senza sminuirle. Inoltre, le aziende dovrebbero presentare un piano, su come potrebbero compensare i danni sviluppatisi ed evitarli in futuro.
- Comunicare in maniera aperta e totale: una crisi comunicativa è da evitare per una buona immagine aziendale. Se ci si è danneggiati da soli, attuare una politica di apertura può aiutare a riconquistarsi la fiducia dei clienti, ai quali però non basta ricevere una semplice spiegazione. Anche le parti interessate, come dipendenti, fornitori, investitori o azionisti, chiedono informazioni rilevanti sullo stato attuale delle cose. In questi casi è opportuno agire con tatto: se dovesse mancare un proprio reparto PR, si consiglia di servirsi di un aiuto esterno. Consulenti esterni sono in grado di stabilire quali siano gli interlocutori giusti, di ottenere moltiplicatori e influencer e di rispondere con fatti in maniera precisa. I no-gos nelle crisi di comunicazione sono l’arroganza, l’ignoranza ed uno scarso coinvolgimento emotivo.
- Coinvolgere tutti i canali comunicativi: in tempi di crisi le aziende dovrebbero segnalare discussioni costruttive. Solo chi mostra ai clienti delusi che i suoi problemi vengono presi sul serio ha la possibilità di contenerli, nonostante lo shitstorm. Intanto, si consiglia di includere tutti i canali di comunicazione disponibili. Mentre le conferenze stampa e i comunicati si offrono per fornire una posizione pubblica, le hotline e i social media offrono la possibilità di rapportarsi a livello umano con i consumatori e di rispondere alle loro domande. Il fatto che il costo delle rispettive strutture di comunicazione possa essere accompagnato da costi alti, lo mostra il caso dello shitstorm contro la DELL.